Afonie e decomposizioni

Afonie e (De)Composizioni

di Francesco Giani

 

György Pálfi è un regista destinato inevitabilmente a dividere. La forza del suo linguaggio non risiede soltanto nel coraggio di spingere i limiti del visibile oltre una certa soglia, come in Taxidermia, così come  non è confinabile al semplice (se pur radicale) esercizio di afonia della sua opera di esordio, Hukkle. La forza risiede nella capacità di scavare sotto la superficie scenografica, per mettere a nudo una dimensione intima difficile da cogliere, che costituisce un microcosmo a parte. Se, da questo punto di vista, Hukkle richiede allo spettatore una partecipazione intensa per cogliere gli aspetti fondamentali della sua storia, Taxidermia sviscera letteralmente l’involucro per mostrare allo spettatore di cosa questo microcosmo sia composto. Sudore, sangue, orifizi, umori; un rovesciamento intestino memore (azzardando il paragone) della terribile Society di Brian Yuzna o del culto cronenberghiano per la nuova carne.

Il corollario sensoriale da cui veniamo investiti mentre assistiamo alle sue opere porta in sé anche una dimensione surreale così banalmente tipica della quotidianità da non impressionarci più. Siamo immersi in continue stimolazioni dei sensi, al punto da non avvertire (a)ritmicità e (im)palpabilità che ci circondano. Assistere al loro manifestarsi da spettatori esterni diventa una sorta di grottesco specchio sulla nostra umanità.

Tuttavia i fendenti che il suo cinema scaglia verso la retina, il gioco complesso che instaura con lo spettatore e con la sua capacità di visione (e re-visione) costituisce, prima ancora che una riflessione sul linguaggio cinematografico, un tentativo di restituire alle facoltà sensoriali la loro dignità. Si raccontano storie che comunicano attraverso sensazioni olfattive, graffi visivi, frastuoni, che costringono ad un’immedesimazione fisica nelle vicende. Questa è la scelta stilistica più difficile da accettare, quella che crea disgusto o che semplicemente respinge: siamo costretti a fare i conti con la nostra materia degradabile, con gli impulsi nascosti e perversi (secondo una morale comune) di cui essa è composta. Ed è chiaro come questa presa di coscienza sollevi, nella maggior parte dei casi, un senso di vergogna verso se stessi.

Più facile quindi non vedere, credere di avere sotto gli occhi un documentario su una comunità agricola ungherese (Hukkle), il ritratto di una famiglia che non ci riguarda (Taxidermia) o un esercizio di neorealismo contemporaneo (I’m not your friend); facile tenersi a distanza. Ma proprio qui sta la particolarità dell’entità/cinema di György Pálfi: non si preoccupa di verificare se il coinvolgimento emotivo nei confronti dello spettatore avviene, pur richiedendolo tacitamente; imprime le sue radici nella nostra testa come un’immagine su una pellicola, con o senza la nostra volontà.

Ecco ciò che abbiamo amato del cinema e della poetica di questo giovane autore: la capacità di avvicinarsi così tanto alla nostra intima essenza da farci sentire completamente nudi. E questa folgorazione prescinde ogni tipo di valutazione sulla capacità registica, su cui bisognerebbe aprire un capitolo a parte.

Pálfi si, Pálfi no?

Pálfi comunque e per fortuna, diciamo.

 

György Pálfi is a director unavoidably destined to divide. The strength of his language does not consist only in the bravery of pushing the limits of visible beyond a certain threshold (like in Taxidermia), nor in the simple (even if radical) exercise of aphonia of his first film, Hukkle. The strenght is in the ability to dig and get beyond the scene surface, in order to disclose a difficult to seize inner dimension which constitutes a different microcosm.

If Hukkle demands to the spectator an intense participation to seize the main aspects of its plot, Taxidermia dissects literally the envelope, showing the spectator what its microcosm is composed by. Sweat, blood, orifices, humours; an intestine reversal which recalls the terrible Brian Yuzna’s Society or of the Kronenberg’s cult for the new flesh.

The sensory corollary, by which we are assailed watching his movies, owns a surreal and so commonly typical everyday life dimension that does not shock us no more. We are plunged in continuous sensory stimuli so that we cannot feel the (non)rhythm and (in)tangibility that surround us. Attending their revelation as external spectators becomes a kind of grotesque mirror of our humanity.

Nevertheless, the downwards that his cinema casts against our retinas, the complicated game that it establishes with the spectator and with his ability of vision (and re-vision) constitute, before than a consideration on the cinematographic language, an attempt to return to sensory faculties their dignity. The communication of the plots is based on some olfactive sensations, visual scratches, uproars that oblige to a physical identification with events. This is the most difficult stylistic choice to accept: it provokes repulsion or simply repels: we are obliged to face our degradable matter, because of perverted and hidden instincts (according to the moral common sense) of which it is composed.  And it is evident as this awareness reveals, in most cases, a sense of shame towards oneself.

So, not seeing is easier; believing of watching a Hungarian documentary about an agricultural community (Hukkle), a family portrait that does not concern us (Taxidermia); or a contemporary neorealist exercise (I’m not your friend). It is easy to keep back.  However, György Pálfi’s entity-cinema peculiarity is just that: he does not care of checking if the emotional involvement of spectators occurs, although secretly he asks for it.  He brands his roots on our mind like an image on the film, with our without our will.

That is what we do love of the cinema and the poetry of a young author: the capability to get so close to our inner essence that we feel naked. And this brainwave leaves out of consideration every kind of evaluation on direction ability, on which it could be opened a new chapter.

Pálfi: yes or not?

Pálfi anyway. And luckily, I would say.