In difesa dell’amatore

di Stan Brakhage

 

            È ormai da più di quindici anni che faccio film. Ho contribuito a diversi film commerciali come “regista”, “operatore”, “montatore”, “scrittore”, persino “attore”, “carrellista”, eccetera, e a volte tutti insieme. Ma soprattutto ho lavorato senza qualifica, senza la collaborazione di altri – ho lavorato da solo e in casa, su film di valore commerciale apparentemente nullo… ‘in casa’ con uno strumento che amo, facendo film per i quali ho lo stesso interesse che come padre ho per i miei figli. Poiché questi home movies sono arrivati a essere apprezzati, diventando un fatto pubblico, io, che li ho fatti, sono stato definito un “professionista”, un “artista”, e un “amatore”. Di questi tre termini, l’ultimo – “amatore” – è quello di cui in realtà sono più onorato… sebbene sia più spesso usato per criticare il lavoro che ho fatto da parte di coloro che non lo capiscono.

Il ‘professionista’ è sempre stato pubblicamente assai ammirato, in ogni tempo. E’ il Don Giovanni le cui tecniche (sessuali, o d’altro tipo), le cui conquiste in termini di numero, velocità, durata o altro, la cui tensione perfezionista (tutto quello che può essere intellettualmente misurato per determinare il ‘vincitore’ di una competizione) abbaglierà chiunque ogni volta che questi si metta in relazione con la massa delle persone, lo spingerà considerarsi parte del numero, e ha così una vita pubblica: ma quando quest’uomo è solo, o con quei pochi, o quell’unica altra persona che ama, la sua ammirazione per Don Giovanni, e per tutti quei tecnici come “professore/professionista”, svanisce dalla sua coscienza, quale che sia – eccetto, ahimè, la coscienza di sé stesso… e se allora è tentato di “atteggiarsi a gran signore” con quelli che ama, se “la sua casa è il suo castello” e lui ne è “il Re”, presto cesserà di avere una qualsiasi vita privata, e potrebbe anche arrivare a essere lui stesso Don Giovanni, per sempre relegato “nell’inferno” dell’ammirazione della vita pubblica altrui. Come tale, finirà per credersi perennemente “in mostra”:  e se farà dei film, anche se solo e in casa propria, sarà conosciuto per fare un grande “spettacolo” anche di questo e imiterà gli addobbi del cinema commerciale (di solito senza alcun successo, poiché tenterà il grandioso nel visivo e nel sonoro con mezzi sproporzionati); e comprerà apparecchiature al di là di qualsiasi necessità o piacere reale (di solito robaccia effettistica – accessori di scena la ‘produzione’ della sua professione immaginaria… piuttosto che per l’amorosa ri-produzione dei moti della sua vita): pretenderà che sua moglie e/o amici impazienti seguano le sue egocentriche direttive, soffrano per le sue delusioni, vengano alle prese per lui (la pigrizia è di solito segno di egocentrismo professionale che vorrebbe qualche servo pronto a seguire ogni sua ispirazione con una sedia da regista per sedervisi); e i suoi figli o chiunque altro ci si aspetti che faccia buon viso a ogni suo allestimento e alle sue inscenate drammatiche (a scapito, come sempre,  di ogni reale messa in scena/gioco)… ah, beh – lo conosciamo proprio tutti, questo preteso professionista che nelle sue imitazioni delle “produzioni” ci offre un simbolo fin troppo reale dei limiti del cinema commerciale senza nessuna delle riuscite di quel genere di tentativo: e il meglio che si possa sperare per un tipo simile è che riesca a fare film commerciali portando tutto quel professionismo fuori della propria casa (dove potrebbe tornare a essere un amatore) oppure che si renda ovviamente ridicolo (dopo di che tornerà di nuovo amabile per quelli che lo amano).

Ora, per quanto riguarda il termine “artista”: sono arrivato alla conclusione, dopo anni di sforzi per determinare il significato di questa parola, che ognuno diventa artista nell’istante in cui sente di esserlo – forse anche nell’istante in cui pensa di esserlo – e che pertanto chiunque, una volta o l’altra nella vita, è un artista. Un Artista pubblico, con la “A” maiuscola, è molto ammirato dai più, e di un valore piccolo per una vita individuale, come ogni professionista. E’ una parola molto simile, nel suo uso corrente, alla parola “amore”. Quando l’Amore è incorniciato, si riferisce alla Madre, al Padre, alla Sorella, al Fratello, alla Moglie, ai Figli, all’Amante e – così come è anche incorniciato e di solito preceduto da una parola “possessiva” – il “tuo” paese, il “mio” cane (persino i “tuoi”, “amami, ama il mio cane”, ecc.), il “suo” cibo preferito, la “nostra” amicizia, ecc. – e, così, la parola finisce per avere un piccolissimo significato pubblico… così come la parola “Arte” applicata alla padronanza del mestiere, all’intelligenza, o a una qualche facilità di tipo competitivo, cessa di avere qualsiasi significato speciale: ma entrambe le parole continuano a agire secondo il significato più profondo che l’intonazione individuale può dar loro nel privato di ogni singola espressione di vita, ciascuna con un significato personale… questa è la bellezza di entrambe queste parole – ed è per questo che non mi preoccupo più di essere chiamato artista, a eccezione dei miei amici e di quelli che mi vogliono bene, non più di quanto mi preoccupi di essere pubblicamente chiamato amante.

“Amateur” è una parola che in latino significa “amante”: ma oggi è diventato un termine come “Yankee” (“Amateur – Go Home”), covato a scopo critico dai professionisti che tanto poco capiscono il valore o il significato della parola quanto poco hanno stima di essa e di quelli tra di noi che ci si identificano, soprattutto quando pensano di farne un uso dispregiativo e disgraziato.

Un amatore lavora a seconda delle proprie necessità (una tendenza tipicamente Yankee) ed è, in questo senso, “a casa” ovunque lavori: e se fa delle immagini, filma ciò che ama o ciò di cui ha in qualche modo bisogno – un’attività sicuramente più vera, e quindi onorevole, del lavoro fatto solo per soldi, per la fama, per il potere, ecc… e soprattutto sicuramente più individualmente significativa di un impiego commerciale – poiché il vero amatore, anche quando in associazione con altri amatori, lavora sempre da solo, giudicando la riuscita rispetto al suo interesse nel lavoro, piuttosto che rispetto ai risultati o al riconoscimento altrui.

Perché allora i critici, gli insegnanti e gli altri guardiani della vita pubblica hanno finito per usare sprezzantemente il termine? Perché hanno fatto sì che “amatore” significhi “inesperto”, “imbranato”, “goffo”, o addirittura “pericoloso”? Perché un amatore è uno che realmente vive la propria vita – non uno che semplicemente “compie il suo dovere” – e in quanto tale esperisce il proprio lavoro mentre lo svolge – invece di andare a scuola a impararlo per poter poi passare il resto della sua vita impegnato solo a svolgerlo doverosamente -; e così  l’amatore impara e cresce in continuazione attraverso il suo lavoro durante tutta la vita, con una “goffaggine” ricca di scoperte continue che è così bella da vedere, se la si è vissuta e la si può vedere, come lo è guardare i giovani amanti nella “goffaggine” della loro continua scoperta reciproca, se mai si è amato e si riesce a apprezzare i giovani amanti senza gelosia. Amatori e amanti sono coloro che guardano alla bellezza e si rendono simili a essa, così dicono che “gli pace”: ma i professionisti, e specialmente i critici, sono coloro che si sentono invitati e in dovere di professare, provare, migliorare, ecc., e sono pertanto del tutto estraniati da qualsiasi semplicità di ricezione, accettazione o apertura, a meno di essere travolti da qualcosa. La bellezza travolge solo nella forma del dramma; e l’amore travolge solo quando è diventato possessivo. E’ il Critico che è in ogni uomo che da’ valore alla posizione del Critico Professionista a discapito dell’Amatore, poiché se chiunque si vergogna della mancanza di dramma nei suoi “home-movies”, mette qualcosa della sua vergogna nel farli (o del suo parlare delle immagini da lui fatte) e, cos’ facendo, ottiene il dramma dell’imbarazzo. E quando un cine-amatore si sente vulnerabile a causa dell’apertura nell’espressione d’amore che ha messo nel filmare sua moglie o i suoi figli, è portato a biasimarsi per la semplicità della sua visione della bellezza e comincia a nascondere quello sguardo semplice dietro una complessità di trucchi fotografici e abilità inscenate, a dare ai suoi “home movies” una sorta di vernice, un levigato e impenetrabile “nascondiglio”, e/o a escogitare scherzi filmici a danno di se stesso e dei suoi cari, come se volesse proteggere se stesso e le sue immagini dalle critiche rendendoli ovviamente ridicoli… quasi a dire: “Guardate, so di essere pazzo – intendo farvi ridere di me e dei miei film!” Effettivamente, quest’ultima tendenza è in ultima analisi una delle qualità più tenere dell’amatorialità, ma anche, come ogni altra autodifesa, è di ostacolo a un’esperienza e una conoscenza più approfondite della persona e dei suoi film e, a dire il vero, di tutti gli strumenti del cinema amatore. Rende gli “home movies” teneri allo stesso modo di quei simpatici grassoni che occultano le loro fattezze nella carne e i loro sentimenti in scherzi e risa a proprie spese – proteggendo così se stessi da un  coinvolgimento nel profondo con gli altri: e, anche loro, i film d’amatore chiedono attenzione in modi impositivi a chiunque guarda, spingendolo a una “benevolenza” ipocrita, e precludendogli ogni reale attenzione… come un balbuziente che può tenere una sala gremita di persone costretta al silenzio mentre si sforza di arrivare a parlare. Eppure vale molto spesso la pena aspettare e prestargli attentamente ascolto proprio perché la sua difficoltà di parola può spingerlo a pensare due volte prima di lottare con l’espressione e può porlo in condizioni di parlare solo quando ha qualcosa di assolutamente necessario da dire… ovviamente non ‘professerà’ mai e risulterà, così, automaticamente un amante del linguaggio parlato.

Suggerisco la coltivazione cosciente di un onesto orgoglio in tutti i “neurotici” (piuttosto che una terapia qualsiasi che implicherebbe l’ideale di una qualche “normalità”) e nel mezzo “neurotico” del fare “home movies” (piuttosto che qualsiasi controllo professionale che potrebbe stabilire una qualche norma del fare film). Vorrei vedere film “grassi” portare il proprio peso di significato e montaggi balbuzienti riflettere il pieno significato della ripetizione, gli atti errati[i] come passi integrali nella ripresa delle immagini in movimento. Gli errori nel filmare, come i lapsus freudiani nel linguaggio, i giochi di parole, molto spesso contengono il significato che era dissimulato nell’errore come pure la ragione dell’errare. Quando la suocera è “accidentalmente” sovrimpressa a immagini del cane di famiglia, un po’ di orgoglio nella propria arguzia (piuttosto che un auto-cosciente imbarazzo) può liberare sia il cineasta che il suo strumento grazie al riconoscimento di una piacevole confessione e informare lui e sua suocera di una relazione che può, come sempre, cambiare per il meglio se sono entrambi capaci di affrontare la verità… inoltre, quando una sovr-impressione del genere viene trattata come uno scherzo insignificante o un errore imbarazzante, l’associazione sprezzante è la sola presa in considerazione (“Bene… è questo che pensi di me – ha! ha! ha!”, dirà la suocera) e mai gli aspetti positivi (come l’affetto dell’amatore per il proprio cane, per esempio). Poiché siamo tutti parecchio condizionati dal linguaggio, molti errori tecnici si riferiscono al nome della tecnica tramite “giochi di parole” visuali/linguistici (come, per esempio, un uomo che può riprendere sua moglie sovraesposta se lei indossa un abito con una scollatura che lui considerata troppo bassa) e persino immagini che dipendono principalmente da parole di riferimento per il loro completo significato (così come, ne sono convinto, la maggior parte degli amatori è portata a riprendere un albero all’estrema sinistra del fotogramma con una regolare disposizione di rocce e cespugli che si estendono orizzontalmente da sinistra a destra per approssimarsi all’aspetto della parola “Tree”[ii]). Trovo questi riferimenti al linguaggio costruttivi nel filmare (come la maggior parte delle panoramiche vanno da sinistra a destra a causa dell’abituale modo di lettura) e in fondo alquanto oscuri da una prospettiva visiva: ma bisogna pur esserne coscienti per poterne rompere la consuetudine: e la consapevolezza ha effettivamente inizio con l’inorgoglirsi per la riuscita di tali visioni linguistiche. E alcuni cineasti godranno di tali immagini orientate nel senso della parola (cosa che io trovo “costrittiva”) e le fanno in tutta coscienza: ma in un modo o nell’altro, la vergogna non ha mai fatto cessare un’abitudine né ne ha fatto una consapevole virtù; piuttosto, oscurerà il processo e soffocherà le radici al di là di qualsiasi possibilità di crescita.

I “trucchi” artificiali coi quali gli amatori cercano di nascondere i loro reali sentimenti, come i “mis-takes”, non servono a altro che a contenere-attraverso-il-metodo la verità che devono servire a nascondere; e sono, di fatto, giochi di parole coscientemente inventati o metafore. Io, personalmente, sono molto interessato a tutta quanta l’area dell’innovazione tecnica nel filmare: e sono spessissimo accusato di essere troppo “artificioso”[iii] nel fare i miei film. E’ certamente una tendenza di cui mi rendo conto: e corro soltanto il rischio personale di inorgoglirmi troppo nei trucchi tecnici. Per controbilanciare questo pericolo per la mia crescita, mi costringo di non escogitare mai un “trucco”, un effetto, o un virtuosismo tecnico, ma mi permetto di arrivare a un’invenzione filmica solo quando nasce dai concreti bisogni dello stesso film durante la lavorazione e come un’assoluta necessità di realizzare le mie emozioni nell’atto di fare un film. Cerco in ogni modo di essere onesto con me stesso a questo riguardo; e di solito riesco a disciplinarmi più chiaramente rendendo tutte le esplorazioni tecniche la diretta espressione di atti del vedere (piuttosto che farne un’immagine da-vedere). Per esempio, quando ho ripreso la nascita dei miei figli ho visto che con le prime immissioni di respiro tutto il loro corpo era da capo a piedi soffuso dei colori dell’arcobaleno: ma il tipo di pellicola registrava solo la diffusione di macchie rossastre su tutta la superficie della pelle: e così, da quando ho filmato la nascita del mio terzo figlio e in ogni occasione visto questo incredibile fenomeno, dovetti dipingere delle approssimazioni di questo direttamente sulla superficie della pellicola 16mm e sovrimprimerle, così come erano, sulle immagini fotografiche della nascita. Non avendo modo di provare se questa visione di arcobaleni di pelle alla nascita era una mia allucinazione o una realtà manifesta troppo sottile per la riproduzione fotografica, mi sentii libero, mentre montavo questo film della terza nascita, anche di dipingere, su ogni fotogramma 16mm, tutte le visioni dell’occhio della mia mente e di inframezzare ai fotogrammi della nascita alcune immagini che mi ero ricordato mentre guardavo il parto – alcune immagini di un tempio greco, orsi polari, e fenicotteri (da un mio precedente film)… immagini che non avevano, naturalmente, un’esistenza reale al momento della nascita se non nella mia “immaginazione” (una parola dal significato greco di “nascita dell’immagine”) ma che erano lo stesso viste da me tanto quanto la nascita del bambino (erano, di fatto, fatte-nascere da me in un atto interiore di magia mimetica tanto antica quanto la storia registrata dell’Uomo).

Tutto questo ci porta alla questione del simbolismo e del soggetto nel fare “home movies”. Quando un amatore filma scene di un viaggio che sta facendo, di una festa o di altre occasioni speciali, e specialmente quando sta filmando i propri bambini, sta innanzi tutto cercando di far presa sul tempo e, come tale, sta in ultima analisi tentando di sconfiggere la morte. Tutto l’atto del fare cinema può quindi essere considerato come un’esteriorizzazione del processo della memoria. “Hollywood”, conosciuta a volte come “la fabbrica dei sogni”, compie drammi rituali per celebrare la memoria di massa – molto simili ai rituali delle popolazioni tribali – e film propiziatori che cercano di controllare il destino della nazione… proprio come le tribù primitive versano l’acqua in terra per far piovere… e fanno drammi “sociali” o “seri”, con grande rischio commerciale per l’industria, e come un atto di “sacrificio” corporativo – non dissimile dalle pratiche di autotortura cui si sottopongono i sacerdoti per “placare gli dei”: e l’intera industria commerciale ha creato una pseudo chiesa il cui “dio” è la “psicologia di massa” e il cui antroporfismo consiste nel pregare (“Compra questo – ORA!), e predare (sondaggi, ecc.) “il più grande numero di persone” come se, per questo, il destino umano fosse prevedibile e/o potesse essere controllato per mimetismo. Ma l’amatore filma le persone, i luoghi e gli oggetti del suo amore come pure gli eventi della sua felicità o importanti per lui con un gesto che può agire direttamente e unicamente a seconda dei bisogni della memoria. Non deve inventare un dio della memoria, come è costretto a fare il professionista: né deve, l’amatore, placare alcuna personificazione di Dio nel suo fare. E’ libero, se solo accetta la responsabilità della sua libertà, di lavorare quando a spingerlo sono lo spirito del suo dio, o la sua memoria, o i suoi particolari bisogni. E’ per questa ragione che credo inevitabile che qualsiasi arte del cinema debba nascere dall’amatore, dai mezzi del fare “home movie”. E credo che il cosiddetto cinema “commerciale”, o rituale, debba inevitabilmente prendere esempio dai film degli amatori piuttosto che, come troppo spesso capita in questi giorni, il contrario.

Lavoro ora ugualmente in 8 e in 16 millimetri facendo per lo più film muti (e sto anche facendo un film in 35mm in casa); sono guidato soprattutto, in tutte le dimensioni creative, dallo spirito della casa dove vivo, dal mio stesso salotto. Ho comprato un po’ di pellicola 8 e 16mm che sta insieme ai libri e ai dischi negli scaffali della mia libreria e ho venduto molti dei miei film in 8mm sia a privati che a biblioteche pubbliche – così da bypassare interamente le limitazioni della distribuzione di film… questo crea la circostanza in cui i film possono essere con-vissuti e studiati in profondità – replicati ancora e ancora come la poesia e la musica registrata.

[In defense of amateur, in “Filmmakers Newsletter”, vol. 4, n. 9-10, luglio agosto 1971; traduzione dall’americano di Donatello Fumarola]


[i]    Nell’originale Brakhage usa il termine mis-take, giocando tra “mistake” (errore) e “take” (ripresa).

[ii]   Albero.

[iii]  Nell’originale Brakhage usa il termine tricky.