Intervista con Stephen Dwoskin

A proposito di Age is…

di Antoine Barraud & Rachel Bénitah

Qual è l’origine del progetto?

 

Tre o quattro anni fa ho letto per la prima volta il libro di Simone de Beauvoir La vecchiaia, scritto nel 1970. Il libro mi ha segnato soprattutto per una cosa: l’ostinazione dell’autrice a scriverlo. Tutti hanno cercato di scoraggiarla a colpi di “la vecchiaia non interessa a nessuno”. C’è una frase in particolare che ha posto in me le prime basi di riflessione: “Il modo in cui sono trattate le persone anziane è il riflesso della nostra società”. La vecchiaia non è, quindi, un fatto soltanto biologico, ma anche culturale. Ho mantenuto, di questo studio, alcuni aspetti etnologici e filosofici a un tempo. Ho raccolto ciò che mi interessava nella fabbricazione del film. Come tutte le situazioni umane, l’età avanzata ha una dimensione esistenziale: modifica il rapporto dell’individuo rispetto al tempo, quindi il suo rapporto con il mondo e la propria storia. La vecchiaia non è un fatto statistico, è la conclusione ed il prolungamento d’un processo di trasformazione. È una metamorfosi, ed in questo è spaventosa. De Beauvoir propone di farla finita con la truffa che consiste nell’omettere questo aspetto nelle nostre vite: “non sappiamo chi siamo, se ignoriamo chi saremo. Questo vecchio, questa vecchia, riconosciamoci in loro. Dobbiamo farlo se vogliamo assumere nella sua totalità la nostra condizione umana.”

Hai visto o letto delle cose che ti sono sembrate giuste riguardo alla vecchiaia?

 

Mi piace molto Going in style (Vivere alla grande), un film comico hollywoodiano con Georges Burns nei panni di un rapinatore di banche. Il film era stato bandito all’epoca. C’è Wolke 9 (Settimo cielo) anche, un film tedesco che affronta la sessualità della terza età. Ma il cinema generalmente va di rado in questa direzione. Bisogna ammettere che la maggior parte di ciò che ci arriva si riduce a degli orribili reportage televisivi che stigmatizzano sempre più (…). Come l’handicap, la vecchiaia non è accettata.

C’è anche Maniquerville di Pierre Creton o La paura mangia l’anima di Fassbinder…

 

Per me, la percezione comune, accettata della vecchiaia non è più soddisfacente di quella del dolore prima che lo esplorassi in Pain is. La condiscendenza verso le persone anziane non mi interessa assolutamente, non più di quella verso gli handicappati. È piuttosto verso il valore e la bellezza dell’anziano che si dirige il film. Per invecchiare bene si deve sentire che si ha un valore, un posto nella società. Ciò che ti fa sentire vecchio è il rifiuto, l’oblio, caratteristica delle società occidentali. È un grande spreco, perché i vecchi potrebbero servire ad un sacco di cose. La stessa società che cerca ad ogni costo di farti vivere più a lungo fa di tutto per negarti il suo aiuto dopo una certa età. C’è stata un’epoca in cui i vecchi avevano un valore, erano considerati per la loro saggezza, il loro sapere. Assai presto, nell’elaborazione del progetto, ho pennsato agli Indiani d’America. Quei visi che divengono per me delle pergamene, le rughe raccontano tante storie, la bellezza supera persino il concetto di vecchiaia. (…) L’innocenza non mi ha mai interessato particolarmente. La ricchezza piuttosto, la complessità, l’ambiguità dell’essere. Ciò che ne fa qualcosa di più della somma degli aggettivi che lo qualificano. (…)

La vecchiaia è una domanda, una paura, un ritorno alla calma anche, ma soprattutto è uno sguardo. Degli altri su sé e di sé su se stesso su sé. La vecchiaia si misura nell’ellisse, nelle fotografie di un’epoca passata, la riapparizione di un amico dopo anni d’assenza, l’apparizione di vecchi film, l’esistenza dell’archivio, come memoria di un cammino. Ecco i luoghi che vorrei esplorare. Purtroppo la vecchiaia è anche perdita. Perdere delle cose, delle persone, degli amici. Si diventa molto soli. Questa è forse una delle ragioni per cui voglio chiedere delle immagini ai miei amici.

(…)

Dici che la vecchiaia, come il dolore, è qualcosa di nebuloso, di sfuocato, che vuoi visitare, approfondire.

 

L’immagine della vecchiaia è un’immagine incerta, confusa, contraddittoria. È allo stesso tempo una determinata categoria sociale, più o meno valorizzata secondo le circostanze, e un destino singolare per ogni individuo. Per quel che riguarda la costruzione del film, vorrei lasciare ogni discussione filmata alla fine, e vedere dapprima sino a dove si può arrivare in termini di costruzione poetica e visuale. (…)

La vecchiaia è anche la capacità di raccontare delle storie.

 

È quanto dicevo prima degli Indiani d’America. Nelle tribù, solo gli anziani raccontavano le storie. Erano loro a portare la storia del gruppo e a ripeterla ai giovani, che a loro volta l’avrebbero ripetuta. La questione della memoria, del ricordo è essenziale. L’anziano è portatore, attraverso la sua memoria, di una saggezza, e può suscitare il rispetto: “colui che per l’età è più vicino all’aldilà è il miglior mediatore tra questo mondo e l’altro.” L’uomo diviene un intercessore, un intermediario. Avviene uno spostamento della posizione dell’altro. Nelle società primitive il vecchio è veramente l’Altro, con l’ambivalenza che comporta questo termine.

(estratto dell’intervista realizzata all’inizio della produzione del film, e pubblicata in Inside Out. Le cinéma de Stephen Dwoskin. – Paris, Independencia éditions, 2012)