ANTONI PADRÓS: L’ANARCHIA AL POTERE

 di Valerio Carando

Premessa

 

Nel tumultuoso bailamme culturale della Spagna tardofranquista, oltre gli steccati temporali e territoriali fissati dalla Escuela de Barcelona[1], sono diversi i registi che hanno perseguito un’originale alternativa ai tradizionali modi di produzione e rappresentazione. Molti di essi si sono mossi ai margini delle strutture amministrative, promuovendo forme e idee decisamente più dirompenti rispetto a quelle – puntualmente rivendicate nei principali circuiti festivalieri – del Nuevo Cine Español (Carlos Saura, Basilio Martín Patino, Paco Regueiro, Miguel Picazo, Mario Camus, Víctor Erice…), nonché della sopracitata Escuela de Barcelona (movimento a suo modo rivoluzionario, certo, ma anche profondamente elitario – figlio cioè di una élite altoborghese – e comunque, almeno in minima parte, compromesso con le istituzioni: le sceneggiature passavano previamente al vaglio degli organismi di censura e i film erano spesso distribuiti in sala, seppure nel circuito periferico del «Cine de Arte y Ensayo»).

Cineasti come Antoni Padrós, Llorenç Soler o Antonio Artero (facenti parte di un ideale gruppo cinesovversivo battezzato da Julio Pérez Perucha «Las brigadas de la luz») si sono spesso spinti oltre i limiti della rappresentabilità filmica, rivendicando la marginalità (rispetto all’industria, e quindi al potere) come essenziale presupposto creativo, produttivo, ideologico. La battaglia formale che hanno impugnato rappresentò anche l’ultima delle potenti sfide rivolte dal cinema all’immaginario del franchismo. La loro opera, totalmente estranea ai ricatti del visto censura, ha trovato una definitiva consacrazione in luoghi di proiezione alternativi alla sala cinematografica: cineclub clandestini, cineforum universitari, fabbriche, festival di settore. Si tratta di un patrimonio culturale ricchissimo che oggi, a posteriori, ci è dato rivendicare senza indugio alcuno. Un patrimonio fantasma, scaturito da una sorta di fisiologica necessità espressiva (i film, nella maggior parte dei casi, erano interamente autofinanziati), che le istituzioni governative spagnole non hanno mai legalmente riconosciuto né autorizzato.

Sette cortometraggi underground (1969-1972)

 

Quieto bancario di giorno, impetuoso demistificatore di notte, Antoni Padrós è l’artista che più di ogni altro ha contribuito a codificare la fisionomia dell’underground iberico. Al grigiore di una vita professionale come mille altre – per di più condotta sotto una castrante dittatura d’ispirazione cattofascista – Padrós oppone le inquietudini di un’attività creativa sfrontatamente anarcoide, attività che lo porta a convertirsi, assai gradualmente, in uno dei nomi più rappresentativi del bassofondo culturale transpirenaico. Dalla tela (e dal foglio da disegno) alla pellicola il passo è breve: in Alice has discovered the napalm bomb (1969), suo fulminante esordio dietro la macchina da presa, trasferisce su celluloide le ossessioni figurative che ne hanno animato la traiettoria artistica sino a quel momento; il Super8 gli permette di rivendicare i colori sgargianti delle prime tele, la folgorante carica provocatoria dei precedenti parti pittorici, come pure un’attrazione istintiva, quasi primordiale, per il corpo femminile. Un corpo innocente e perverso, fanciullesco e al contempo fortemente consapevole, vittima inerme di un milieu sociale il cui dogmatismo ideologico – siamo all’indomani della rivoluzione culturale – assurge a brutale sconquasso della carne (dopo essere stata stuprata a turno da tre uomini – il capitalista, il maoista e l’hippie: tre proiezioni di un unico, fiero conformismo – Alice esplode in un liberatorio «Merda, merda, merda!», contorcendosi negli spasmi di una possessione che precorre di quattro anni le perturbanti atmosfere de L’esorcista).

Dafnis y Cloe (1969) sancisce l’avvio del sodalizio artistico con Rosa Morata, che si convertirà ben presto nella sua attrice prediletta, per non dire nella sua icona visiva più tipica. Nel corpo di Rosa coabitano, non senza sottili stridori, il candore della fanciullezza e gli ardori della femminilità più smaliziata, il lecito e il proibito, il sacro e il profano: è «perversa e santa – afferma Padrós – ovvero la donna che ogni uomo, nessuno escluso, sogna di avere al proprio fianco». In questo secondo corto sperimentale, il cineasta affronta per la prima volta le forme dell’iconografia religiosa. Un rapporto denso e travagliato quello di Padrós con il potere ecclesiastico, che culminerà con la rivisitazione – in chiave gustosamente blasfema – dell’annunciazione divina nel film-fiume Shirley Temple Story (1976). In Dafnis y Cloe la provocazione è palesata senza riserve. Padrós ha vissuto e patito sulla propria pelle gli eccessi di un clima socioculturale bigotto e repressivo, dal quale, complice una famiglia di tradizioni rigorosamente laiche e di salda fede repubblicana, ha preso le distanze sin da principio. Il film nasce dall’esigenza di delegittimare quello stesso sostrato culturale su cui Francisco Franco, con il fondamentale concorso dell’Opus Dei, aveva alimentato e costantemente rivendicato la legittimità del proprio potere. Constatata la scomparsa di ogni possibile punto di riferimento – «Sono morti tutti: Gesù Cristo, il Che, Marilyn… anche James Dean» – i due protagonisti si convincono del fatto che l’unico antidoto alla soccombenza risiede nella lotta, impavida e incessante, contro l’ordine costituito. Nel finale, Padrós si regala uno dei suoi tipici escamotages destrutturanti e autoriflessivi, inquadrando il riverbero della troupe (regista incluso) sulla superficie di uno specchio. Pone così un personalissimo sigillo su questo travolgente pamphlet, investendo nell’audace gesto – con una certa dose di beffarda spavalderia, occorre ammetterlo – il proprio stesso corpo.

Pim, pam, pum, revolución (1970) mette alla berlina lo spirito fintamente engagé della borghesia barcellonese (quella stessa borghesia dalla quale provengono, sia detto senza livore polemico, alcuni tra i principali propulsori della Escuela de Barcelona). Un microcosmo estremamente provinciale, che si approssima alla politica più per inerzia conformistica che per reale convinzione, e che nei fine settimana si riversa sulle spiagge della Costa Brava al fine di rivendicare, non senza una punta di nevrotica ossessività, l’appartenenza al proprio status sociale. Dietro l’esplicito omaggio al magistero di Godard fa capolino una denuncia coerente con il fervore antidogmatico di Padrós. L’autore dilata i tempi, reitera le azioni (azioni prive di senso, sempre uguali a se stesse, proprie di una borghesia che ha perso ogni contatto con la realtà), spezzando i ritmi del racconto con alcune buffonesche digressioni ambientate sulla spiaggia di Cadaqués (che di questa borghesia è il ritiro privilegiato). I borghesi di Padrós, insomma, rivestono un ruolo determinante nella conservazione dello status quo: parlano di rivoluzione e si inchinano ai piedi dell’ordine costituito. Sono, volenti o nolenti, i più solidi alleati del regime franchista. L’unica rivoluzione alla loro portata è il suicidio; infatti il protagonista, dopo essere stato abbandonato dalla compagna (reclamata in Germania da improbabili gioventù «social-marxista-marcusiane»), si spara un colpo alla tempia.

Ice cream (1970) è il primo dei film di Padrós a centrare il discorso sull’intimità della coppia. Attraverso l’impattante racconto di una fellatio (rappresentata per sostituzione con un feticcio fallico – un cono gelato – che si sovrappone idealmente all’immagine iconica del sesso maschile), l’autore accenna alle implicite gerarchie che regolano i rapporti di piacere. Appoggiandosi a ritmi di cadenzato vigore liturgico, Padrós mette in scena un rituale pagano che vede l’archetipo femminile (Rosa Morata, ovviamente) imporsi con forza su quello maschile. L’intimità prevale sull’ufficialità: nell’universo di Ice cream, che si nutre, in linea con il miglior repertorio underground, di peculiari quanto puntuali ribaltamenti, il fallo è stato definitivamente detronizzato. La provocazione padrósiana opera un aggressivo ribaltamento di quei tòpoi socioculturali che inchiodano la donna alla coercizione e alla sottomissione, come pure alle convenzioni di una sessualità presuntamente «debole». Il film, a un livello di lettura più immediato (ma non per questo meno interessante), stigmatizza anche la proverbiale sessuofobia delle classi dirigenti, sottomesse, dal dopoguerra in poi, al conservatorismo ipocrita promosso dal caudillo con l’incondizionato beneplacito del Vaticano.

Swedenborg (1971) prosegue il discorso sui rapporti di coppia avviato con Ice cream. Padrós riformula le regole del «dramma da camera», così come sul set di Shirley Temple Story elaborerà nuovi codici in seno alle forme del cinema musicale: il tradizionale kammerspiel viene privato delle tre unità aristoteliche che ne hanno sempre costituito il nerbo (perlomeno in teatro), mentre il baricentro espressivo è dirottato sull’acida visionarietà di una messa in scena estremamente algida e stilizzata. La coppia è per Padrós il terreno più idoneo allo sfogo della pulsione sadomasochistica; a soccombere è ovviamente la parte debole, ossia quella maschile/mascolina/maschilista.

Intorno all’orbita della coppia gravita anche il lavoro successivo, ¿Qué hay para cenar querida? (1971). Si racconta di una coppia dannata in partenza (poiché apertamente incestuosa) e difatti le prime inquadrature, altamente premonitorie, indugiano sulle forme di un sepolcro. Il film è senz’altro tra i più drammaturgicamente articolati di Padrós. La qualità della scrittura si rivela a monte solida e consistente: la voce off della protagonista, letteraria quanto basta, accompagna gli sviluppi dell’intreccio e scandisce le tappe di un delirio che incalza inesorabile. Sono ravvisabili flebili echi viscontiani (Vaghe stelle dell’Orsa, 1965), ma solo in superficie: la struttura del racconto, come sempre in Padrós, fagocita i dettami del découpage classico per poi riproporli ridotti a brandelli (siamo o non siamo ai margini del cinema? Ogni scelta espressiva, in questo hic et nunc, è lecita a priori). La macchina da presa volteggia, aderisce ai corpi, flirta con il melodramma. Ma Padrós è in agguato: sul suo volto scorre rapida l’ultima inquadratura. Quasi volesse sussurrarci, con l’impudenza del vero pícaro: «Non abbiate paura, in fondo è solo un film».

Els porcs (1972), ultimo dei corti underground di Padrós, è un limpido divertissement. Girato poco prima di Lock-out (1973), ne costituisce una sorta di antefatto (l’autore ha parlato di esplicito «atto di disintossicazione» propedeutico alle riprese del suo primo lungometraggio). L’idea è quella di smitizzare un capogruppo unitamente alla sua corte di tirapiedi: «In ogni situazione c’è sempre un leader. Da lontano Rosa [Morata], mezza ubriaca e vestita come la cabaretera di un film western, lo scruta incredula: “Ostia, che erezione!” […]. È semplicemente la critica di un ambiente, del falso progressismo di allora, che tanto predominava […]. In coda possiamo ascoltare il monologo di Rosa: “Che culturina, che culturona… Mi piace la dialettica marxista… e mi piacciono pure gli architetti progressisti…”»[2]. In apertura, Padrós inquadra il marchio della Twentieth Century Fox e ne sbeffeggia il jingle. Si tratta di un preludio, più o meno cosciente, a Shirley Temple Story, nel quale attaccherà con mordace violenza l’immaginario sedimentato del cinema americano.

Note sullo stile

 

È proprio a partire dall’ingombrante grana del 16mm che Padrós rivendica la congenita marginalità del suo cinema. Ebbene sì, la grana è un fatto di stile. La scuola Aixelà, che patrocina la realizzazione dei suoi primi corti (da Alice has discovered the napalm bomb a Ice cream), ha la possibilità di fargli pervenire rulli di pellicola scaduta a prezzi assai vantaggiosi. Il cineasta approfitta della situazione: gira su negativi sonori e su materiale Dupont malandato, volgendo a proprio favore la bassa definizione dei supporti (quarant’anni prima che l’utilizzo massivo dei videofonini aprisse il dibattito sulle possibilità espressive della bassa definizione).

La camera, quasi sempre a spalla, asseconda i frammentari ritmi del montaggio. Un montaggio per forza di cose rapido e spezzettato, dato che le macchine utilizzate – almeno fino a Ice cream – non funzionano a motore bensì a molla e hanno un’autonomia di venticinque secondi per ogni ripresa. Le inquadrature, anche quando presentate in successione simultanea, soffrono importanti carenze sul piano della continuity. Se in Alice has discovered the napalm bomb la cosa è pressoché inevitabile (causa l’inesperienza della troupe), a partire da Dafnis y Cloe assurge a tòpos visuale, ad autentica peculiarità stilistica. Operare al di fuori del sistema industriale significa creare nuovi spazi espressivi; l’infrazione dei codici istituzionali prevede che anche il concetto di continuità venga rivisto e formalmente ricollocato. Conseguentemente anche l’asse temporale interno alla diegesi subisce strappi e variazioni, sino a incontrare l’inebriante parossismo di Swedenborg (dove passato e presente, sogno e realtà si concretano in un unico blocco narrativo) e di ¿Qué hay para cenar querida? (in cui i ricordi del passato si uniscono alla cronaca del presente e alle deliranti visioni del protagonista). La stessa grammatica filmica viene da Padrós radicalmente rivisitata, ricodificata, rifondata: se il suo universo si deve opporre a quello del cinema ufficiale, i modi di rappresentazione – sulla scia dei modi di produzione – vanno ribaltati senza alcuna esitazione. Se il cinema industriale deve obbligatoriamente piegarsi a una supposta linearità espositiva, qui ci si abbandona alla cumulativa e folle intersezione dei più disparati piani spaziotemporali (Dafnis y Cloe, Pim, pam, pum, revolución, Swedenborg, ¿Qué hay para cenar querida?); se il cinema industriale si arrende alle lusinghe della pubblicità occulta, qui si irridono i marchi pubblicitari esibendoli sfacciatamente (Lock-out); se il cinema industriale si fa veicolo di modelli e repertori studiati a tavolino, qui i modelli e i repertori «imposti dall’esterno» vanno sistematicamente denudati, smembrati e ricollocati (Els porcs, Shirley Temple Story); se il cinema industriale persegue ostinatamente la perfezione del dettaglio, qui ogni singolo ciak trova una sua flessibile integrazione nel flusso narrativo (per Padrós è sempre buona la prima, indipendentemente dall’equilibrio formale raggiunto). La marginalità è per Padrós un atteggiamento strettamente connesso al significante. Opporsi al potere significa innanzitutto opporre al suo immaginario un immaginario di secondo grado: fra i modi di rappresentazione e quelli di produzione deve vigere un rapporto di reciproca interdipendenza.



[1] La Escuela de Barcelona, sulle orme della Nouvelle Vague francese, rompe ogni legame con il passato e (almeno in parte) con l’industria, presentandosi come vero e proprio movimento dissidente e di rinnovamento. In aperta polemica con il cinema «di Madrid» l’interesse per il mezzo è esclusivamente di natura formale, gli attori – salvo isolate eccezioni – non sono professionisti, il lavoro è d’équipe ed è prevista una ciclica rotazione delle competenze. I cineasti coinvolti in questa sorta di scuola-laboratorio sono Joaquim Jordà, Jacinto Esteva, Carles Durán, Vicente Aranda, Romà Gubern, José María Nunes, Jaime Camino, Pere Portabella, Ricard Bofill, Jordi Grau, Gonzalo Suárez. Il loro cinema guarda con entusiasmo all’Europa della cultura pop, della Nouvelle Vague e dei Cultural Studies. La dissidenza è giocata unicamente sul piano delle forme, mentre gli intrecci non sono che fragili pretesti per lavorare sul linguaggio delle immagini e sulla palpabilità delle emozioni.

[2] J.M. García Ferrer, Martí Rom (a cura di), Antoni Padrós, Associació d’Enginyers Industrials de Catalunya, Barcelona, 2004, p. 34.